La certificazione dell’impianto elettrico è un requisito fondamentale per uno stabile, che sia ad uso domestico o che sia ad uso commerciale. Non solo si deve prevedere in fase (ultimata) di lavori di costruzione o ristrutturazione, ma è sempre importante da richiedere qualora si acquisti un locale o un appartamento in sede di rogito notarile. La certificazione a norma infatti mette al riparo da inattesi guasti, evita sanzioni in caso di controllo, permette di usufruire se prevista della garanzia di manutenzione e garantisce l’accesso ad agevolazioni e detrazioni fiscali in sede di dichiarazione dei redditi.
Vediamo quindi in questa guida in cosa consiste la certificazione dell’impianto elettrico, quali sono i documenti da redigere e quali sono i requisiti da soddisfare per mettere tutto a norma.
Sommario
La prima cosa da specificare, per inquadrare l’argomento, è di cosa stiamo parlando. Ecco allora che la certificazione dell’impianto elettrico si definisce più correttamente ‘Dichiarazione di conformità‘ dell’impianto stesso (in acronimo Di.Co).
A regolamentarne diciture e procedure è un percorso che parte dal 1990 e arriva sino al 2008. Originariamente infatti, a parlare di conformità degli impianti, era la legge numero 46 del 1990. Tale legge si componeva di diversi punti, tra i quali:
Successivamente, come spesso accade con le integrazioni migliorative, quella legge è stata abrogata e sostituita da un Decreto ministeriale che ne ha colto e ampliato la portata. Il riferimento normativo attuale è quindi il D.M. numero 37 del 2008. Vediamo cosa dice.
Advertisement - PubblicitàCon doverosa pubblicazione sulla Gazzetta Ufficiale, il 22 gennaio del 2008 è stato introdotto il decreto in oggetto, avente titolo ‘Regolamento (omissis) e riordino delle disposizioni in materia di attività di installazione degli impianti negli edifici‘.
Con ben 15 articoli e due allegati finali, il Decreto ha voluto appunto riordinare tutto il settore, stabilendo ambiti e requisiti, a cominciare dal primo e più importante: cosa si intende per impianto?
Lo dice il Decreto proprio all’inizio, all’articolo 1 comma 1. In realtà gli impianti sono generici, nel senso che naturalmente la stessa disciplina si applica anche alla certificazione per il gas o per il riscaldamento, gli impianti idrici o quelli elettronici. A noi interessa però l’impianto elettrico.
Se si deve operare e intervenire su un impianto elettrico, va da sé che si deve sapere esattamente cosa si intende per ‘impianto elettrico’. Non si tratta naturalmente di pignoleria.
A noi, in quanto abitanti di un ipotetico appartamento, basta sapere che l’impianto elettrico è quell’apparato che ci permette di premere un interruttore e accendere la luce quando entriamo in casa.
Ma una ditta che debba progettare e creare ex novo un impianto elettrico dovrà sapere di cosa si tratta esattamente e secondo la normativa.
Allo stesso modo un professionista chiamato a certificare l’impianto, dovrà effettuare sopralluoghi, misurazioni, per poi apporre la sua firma (e la sua responsabilità professionale e penale) che stabilisce che tutto è a norma.
Ma tutto cosa?
Si pensi anche alla richiesta di agevolazione o di un incentivo fiscale come il bonus energetico. A cominciare dall’APE (attestazione della prestazione energetica che comunque stabilisce il consumo e non la conformità) per finire con la classificazione della classe energetica post operam, su cosa dovrà intervenire il tecnico?
Ecco allora che secondo quella legge, si definisce impianto elettrico ‘quell’impianto in cui si produca, si trasformi, si trasporti, si distribuisca e infine si usi l’energia elettrica‘. Rientrano in questa definizione anche gli impianti che alimentano i cancelli o le porte automatiche. Come si vede, è ben altra cosa dall’accendere o spegnere una luce. Anche perché, e questo ci porta al ragionamento successivo, avere un impianto a norma conviene sotto molti profili.
Advertisement - PubblicitàFacciamo solo qualche piccolo esempio molto concreto, nel quale chiunque si possa ritrovare, per far toccare con mano l’importanza di una certificazione. Non si tratta solo (anche se già di per sé sarebbe sufficiente) di rispettare la legge.
Si acquista un immobile in una compravendita tra privati. Il notaio, in sede di rogito, inserisce un’apposita clausola nella quale informa il compratore del fatto che il venditore sta certificando l’impianto. Se il venditore non inserisce questa clausola, e dopo l’acquisto si verificano guasti all’impianto, il compratore non potrà rivalersi sul venditore, in quanto questi lo ha ‘avvisato’ che l’impianto non era a norma.
Quando si acquista un immobile, se tra la documentazione richiesta all’agenzia immobiliare non compare lo schema dell’impianto, sarà bene approfondire, perché molto probabilmente mancherà anche la certificazione.
Si vuole usufruire di un’agevolazione fiscale che incentiva i sistemi di illuminazione come il fotovoltaico. Come si potrebbe presentare una richiesta se non si possiede una certificazione?
Infine, se la certificazione è a norma, garanzie e assicurazioni potranno essere applicate e usate all’occorrenza. Se si dovesse ad esempio sviluppare un incendio in un negozio a causa di un difetto in un impianto elettrico non a norma, sarà impossibile essere risarciti, e anzi si potrà incorrere anche in sanzioni pesanti. Perché rischiare?
Continuando con l’argomento, è bene adesso distinguere tra i diversi tipi di impianto.
Advertisement - PubblicitàPoco, per rispondere alla domanda, perché in sostanza si tratta più che altro del protocollo da seguire. Tuttavia, sempre nell’ottica del discorso che abbiamo intrapreso, potremo chiederci se cambia qualcosa a seconda del luogo fisico in cui si trova l’impianto stesso.
Potrebbe essere infatti un appartamento, o ancora un ufficio privato o uno stabile pubblico come un ospedale, o infine anche un negozio, cioè un’attività commerciale. Ebbene, il decreto chiarisce anche questo quando, tra gli ambiti di applicazione stabilisce che ‘il decreto si applica agli impianti al servizio degli edifici, indipendentemente dalla destinazione d’uso‘.
Tuttavia, come vedremo a seguire, la destinazione d’uso può influire sull’ulteriore documentazione da esibire. Cioè, se per un appartamento basta la Di.Co, per un’attività commerciale serve anche altro.
Non è questa la sede per addentrarci in definizioni tecniche relative a potenza impegnata, tensione superiore o corrente continua. Scopo di questa guida è quello di fornire un quadro chiaro e completo su quali siano i requisiti necessari e quindi la documentazione utile che attesti che un impianto è a norma. Vediamo dunque i passi necessari per provvedere.
Ecco un’altra occasione per specificare qualche utile informazione prima di continuare. Ci si potrebbe infatti chiedere a questo punto alcune cose, prima ancora di continuare.
Partiamo dal caso più semplice, quello della costruzione o della ristrutturazione di un locale. Al termine dei lavori la ditta qualificata e soprattutto certificata, deve produrre la Di.Co. con la quale assicura che l‘impianto è stato fatto a regola d’arte, cioè rispettando i dettami del Decreto attualmente in vigore. Ora, non basta rispettare solo il Decreto, che è comunque il testo base di riferimento.
E qui entra in campo la distinzione che facevamo all’inizio su abitazione privata e locale commerciale. Quindi, fermi restando l’applicazione e il rispetto del Decreto, le altre due norme di riferimento sono:
Quindi, una volta che il tecnico, e cioè la ditta, abbia rispettato le norme, la documentazione che dovrà produrre sarà la seguente.
Il tecnico può usare per comodità un modello standard licenziato con il D.L. del 19 maggio 2010, che si può scaricare qui.
Cosa deve indicare? Lo si deduce dal modello stesso, e cioè:
Si continua con i requisiti del tecnico che certifica. Anche in questo caso viene in nostro aiuto il Decreto, davvero esaustivo in materia. Il Decreto stabilisce tra le altre cose chi può rilasciare la famosa Di.Co.
Si tratta di un tecnico che lavori in una ditta (quella che esegue il lavoro stesso). La ditta deve essere iscritta al registro delle imprese o in alternativa anche all’albo degli artigiani. Il tecnico da parte sua deve poter dimostrare di avere titoli ed esperienza. L’articolo del D.M. di riferimento è il 4, che stabilisce la necessità di avere:
Bene, ma in sostanza quale può essere il costo di tale certificazione? Naturalmente il costo si riferisce alla perizia, non certo al lavoro della ditta sull’impianto fisico.
Due sono i casi di massima. Nel primo caso l’impianto esiste e va solo certificato, e allora il costo si aggira sui €. 250-300,00. Se invece occorre fare dei lavori, il costo può salire da un minimo di €. 200,00 € a un massimo di €. 600,00.
L’importo esatto dipenderà anche dal tipo di intervento e dalla Regione di riferimento.
Advertisement - PubblicitàPer concludere, una volta avviato l’iter, sarà bene fare attenzione a due cose in particolare, l’una preliminare e l’altra conclusiva.
Prima di procedere con la certificazione, soprattutto se questa è propedeutica a qualche richiesta di agevolazione o alla compravendita di un immobile, è opportuno (e del tutto lecito) chiedere alla ditta di fornire una copia del certificato di attestazione professionale del tecnico.
Una volta finito il tutto, sarà bene accertarsi (perché il committente ne risponde) che la documentazione sia consegnata a chi di competenza. Da ricordare quindi che la Di.Co. va redatta in tre copie.
La prima andrà al proprietario dell’immobile se coincide anche con il committente dei lavori, la seconda andrà al Comune e precisamente allo Sportello Unico dell’Edilizia, e la terza al distributore dell’energia elettrica
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