Una sentenza innovativa chiarisce quando una piscina può essere considerata pertinenza edilizia: dimensioni, funzione e contesto determinano la necessità del permesso di costruire o meno.
La costruzione di piscine private è una delle tendenze edilizie più diffuse degli ultimi anni, complice la crescente attenzione al comfort domestico e alla valorizzazione degli spazi esterni.
Tuttavia, accanto all’entusiasmo per la realizzazione di questi manufatti, spesso sorgono dubbi di carattere normativo: serve sempre un permesso di costruire? È possibile qualificare una piscina come pertinenza dell’immobile principale? Quali sono i limiti dimensionali da rispettare?
Su questi interrogativi si è espressa con forza e innovazione la sentenza n. 926/2024 del Consiglio di Giustizia Amministrativa per la Regione Siciliana, che ha offerto un’interpretazione destinata a fare scuola.
Il caso trattato riguardava la contestata costruzione di una piscina ritenuta abusiva da un Comune siciliano, con conseguente ordinanza di demolizione. Dopo un primo rigetto da parte del TAR, il ricorso è approdato in appello, dove il CGARS ha ribaltato l’esito, introducendo un nuovo e interessante criterio oggettivo per valutare la natura pertinenziale delle piscine.
Ma cosa ha deciso esattamente il Consiglio? E in che modo questa sentenza può cambiare il modo in cui cittadini, tecnici e amministrazioni interpretano le regole sull’edilizia privata?
Sommario
Tutto nasce da un’ordinanza emessa dal Comune di Venetico nel 2016, con cui si intimava la demolizione di una piscina in cemento armato di circa 70 metri quadrati, ritenuta abusiva. L’Amministrazione comunale fondava il provvedimento su una presunta violazione edilizia, rilevata a seguito di un esposto e confermata — secondo il Comune — da un sopralluogo della Polizia municipale, sebbene quest’ultimo avvenisse solo dopo l’emissione dell’ordinanza stessa.
I proprietari dell’immobile, destinatari del provvedimento, contestavano con forza l’interpretazione del Comune. A loro avviso, non si trattava affatto di una piscina, ma di una vasca-cisterna interrata, realizzata ben prima del 1975 e destinata alla raccolta delle acque piovane per usi agricoli.
Secondo la difesa, l’opera era quindi da ritenersi esistente, funzionale e conforme alla normativa dell’epoca, e per questo non soggetta ad alcun titolo abilitativo.
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Il caso è approdato prima davanti al TAR di Catania, che ha respinto le ragioni dei ricorrenti ritenendo che l’opera costituisse una nuova costruzione, dunque non qualificabile come semplice pertinenza. Tuttavia, i ricorrenti non si sono arresi, presentando appello al Consiglio di Giustizia Amministrativa, con ulteriori documenti tecnici e una perizia che sosteneva la piena legittimità del manufatto.
Nel frattempo, a seguito della sospensione ottenuta in appello, i ricorrenti hanno rimosso lo specchio d’acqua e avviato una SCIA in sanatoria, conclusasi positivamente nel giugno 2024.
Advertisement - PubblicitàLa questione giuridica su cui si è concentrato il Consiglio di Giustizia Amministrativa è tra le più delicate in materia urbanistica: un manufatto come una piscina può essere considerato “pertinenza” di un edificio principale oppure costituisce una “nuova costruzione” soggetta a permesso di costruire?
Il TAR aveva risolto il dubbio in modo netto, negando ogni valore alla documentazione difensiva e sostenendo che l’opera, per le sue caratteristiche costruttive e l’impatto sull’assetto del territorio, non potesse qualificarsi come pertinenza, bensì come nuova costruzione. Di conseguenza, la mancanza di un titolo edilizio ne avrebbe giustificato la demolizione.
Il CGARS, al contrario, ha operato un’attenta rivalutazione dei fatti e delle norme, giungendo a una conclusione profondamente diversa. Sulla base di una perizia tecnica depositata già in primo grado, ha preso atto che il manufatto contestato era completamente interrato, con una semplice cornice in cemento armato al colmo, non accessibile dall’esterno se non attraverso l’immobile principale, e non dotato di caratteristiche tali da renderlo utilizzabile in modo autonomo.
Non solo: il Collegio ha anche precisato che la piscina si trova interamente all’interno della particella catastale di proprietà esclusiva dei ricorrenti e non ha in alcun modo un accesso autonomo o indipendente.
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Queste caratteristiche — unitamente alla dimensione contenuta dell’opera (10 x 6 metri, profondità 1,30 m) — sono state determinanti per qualificare la costruzione come pertinenza urbanistica dell’abitazione, priva di rilevanza autonoma e, dunque, non soggetta all’obbligo di permesso di costruire.
Advertisement - PubblicitàCiò che rende davvero innovativa la sentenza del CGARS è l’introduzione di un nuovo criterio oggettivo per valutare la natura pertinenziale di una piscina: la lunghezza della sua diagonale. Un parametro semplice, ma potenzialmente rivoluzionario per l’intera giurisprudenza in materia edilizia.
Fino ad oggi, il concetto di “modeste dimensioni” — indispensabile per considerare una piscina una pertinenza e non una nuova costruzione — era lasciato a valutazioni piuttosto soggettive, spesso basate sulla superficie dello specchio d’acqua o sull’impatto visivo. Il CGARS ha deciso di superare questa vaghezza, proponendo una misurazione molto più concreta: la distanza massima che un nuotatore potrebbe percorrere in linea retta all’interno della piscina, calcolata lungo la diagonale maggiore (nel caso di forme rettangolari) o secondo il diametro massimo (nel caso di forme irregolari o tonde).
Secondo il Collegio, una piscina può essere considerata pertinenziale se la sua diagonale non supera i 12,5 metri, ossia la metà della lunghezza di una vasca semiolimpionica (25 metri). Questo valore non è scelto a caso: è il limite entro cui, secondo i giudici, viene meno la concreta attitudine al nuoto, anche solo amatoriale.
In altre parole, una piscina così contenuta può al massimo servire a rinfrescarsi o giocare, ma non è destinata a un utilizzo sportivo o autonomo, il che la qualifica come accessoria all’abitazione.
Nel caso concreto, la piscina aveva una diagonale di 11,66 metri, ben al di sotto del limite stabilito. Anche la profondità massima (1,30 metri) era inferiore al tetto massimo di 2 metri indicato dalla sentenza. Questi due elementi sono risultati decisivi per considerarla non una nuova costruzione, ma una semplice pertinenza edilizia.