Un progetto ambizioso per realizzare una piscina pubblica con annessi servizi sportivi e ricreativi. Un permesso di costruire regolarmente rilasciato dal Comune di Eboli nel 2005. E poi, nel tempo, una lunga serie di modifiche, varianti e cambi di destinazione d’uso che hanno trasformato radicalmente l’idea iniziale in qualcosa di molto diverso: locali ad uso abitativo, uffici privati, tettoie abusive e persino un piano interrato non autorizzato.

È questa la vicenda finita sotto la lente del Consiglio di Stato, che con la sentenza n. 3416 del 18 aprile 2025, ha confermato il rigetto della richiesta di sanatoria e la legittimità dell’ordinanza di demolizione emessa dal Comune. Secondo i giudici, non si trattava di semplici difformità, ma di un abuso edilizio totale, in cui l’opera realizzata è risultata del tutto diversa rispetto a quella inizialmente autorizzata.

Quando è possibile ottenere una sanatoria edilizia? E cosa accade quando si abusa della fiducia concessa con un permesso di costruire?

Questo caso aiuta a fare chiarezza su uno dei temi più spinosi del diritto urbanistico.

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Il progetto iniziale: un impianto sportivo “inclusivo” e integrato nel tessuto urbano

La vicenda affonda le radici nel 2005, quando i proponenti ottengono dal Comune il permesso di costruire per realizzare una piscina all’aperto, con annessi servizi su più livelli. L’intervento era stato concepito non solo come opera sportiva, ma anche come struttura moderna e inclusiva, pensata nel rispetto della normativa sull’abbattimento delle barriere architettoniche e conforme alla disciplina tecnica del CONI allora vigente.

Secondo il progetto iniziale, oltre alla vasca per il nuoto (di 176 mq), erano previsti spogliatoi separati per uomini e donne, un’infermeria, impianti tecnici, un’area ricezione, un punto ristoro, uffici amministrativi, una sala riunioni e persino un’aula didattica, con terrazzo-solarium in copertura.

L’intera struttura si collocava in una zona classificata come “Ba – satura” dal Piano Regolatore Generale, ovvero un’area urbana già edificata, dove eventuali nuove volumetrie devono rispettare vincoli molto stringenti.

Fin dall’inizio, dunque, il progetto godeva di una certa legittimità e rispondeva a un’esigenza pubblica di dotazione sportiva. Tuttavia, a partire dal 2007, cominciarono a susseguirsi numerose varianti in corso d’opera, presentate attraverso diverse D.I.A. (Dichiarazioni di Inizio Attività), che segnavano un cambio di rotta significativo rispetto all’opera inizialmente autorizzata.

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Opere mai realizzate e destinazioni d’uso stravolte: le gravi difformità rilevate

Nel corso degli anni successivi al rilascio del permesso di costruire, il Comune ha rilevato, tramite sopralluoghi e accertamenti tecnici, una serie di profonde difformità rispetto al progetto originario. Invece dell’impianto sportivo previsto, si è delineata una realtà completamente diversa: la piscina non è mai stata scavata, e l’area destinata alla vasca si era trasformata in un semplice piazzale, utilizzato come deposito per materiali e attrezzature edili.

Ancora più gravi risultavano le trasformazioni dell’edificio: il piano terra, anziché ospitare i servizi di supporto come previsto, era stato convertito in locali abitativi e spazi commerciali; il primo piano, destinato a uffici e aule didattiche, era diventato un vero e proprio appartamento; il secondo piano, previsto come solarium aperto, era stato chiuso e adibito a studi professionali; infine, era stato realizzato anche un piano interrato non autorizzato, utilizzato come deposito.

Tutti questi interventi risultavano non solo privi di titolo edilizio, ma incompatibili con la zonizzazione urbanistica, che vieta espressamente nuove volumetrie in quella specifica area “Ba – satura”.

Nel 2014, alla luce di queste evidenti violazioni, l’amministrazione comunale ha emesso un’ordinanza di demolizione per tutte le opere abusive riscontrate, avviando così un lungo contenzioso che ha coinvolto anche richieste di sanatoria successivamente respinte.

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La richiesta di sanatoria e il netto rifiuto del comune

Nel tentativo di regolarizzare quanto costruito in assenza di titolo, i proprietari presentarono nel 2015 una richiesta di sanatoria ai sensi dell’articolo 36 del Testo Unico dell’Edilizia (D.P.R. 380/2001), che consente la legittimazione postuma di opere eseguite senza permesso, a patto che risultino conformi alla disciplina urbanistica ed edilizia vigente sia al momento della realizzazione che alla data della domanda.

La domanda riguardava una lunga serie di trasformazioni: la realizzazione della piscina in un nuovo piano seminterrato, l’istituzione di un centro benessere, la modifica del primo piano per uso abitativo (foresteria), l’uso del secondo piano come sede professionale e associativa, e l’adattamento degli spazi esterni con tettoie e manufatti.

Il Comune, tuttavia, respinse con fermezza l’istanza, motivando il diniego con l’assoluta incompatibilità delle opere rispetto agli strumenti urbanistici vigenti. Le trasformazioni, infatti, avevano comportato un aumento significativo di volume e superficie in un’area dove tali aumenti erano espressamente vietati. Inoltre, l’organo comunale sottolineò che la mancata realizzazione della piscina – elemento centrale del progetto originario – comportava una totale difformità rispetto al permesso di costruire iniziale.

Il diniego fu quindi inevitabile, poiché le condizioni previste dalla legge per il rilascio della sanatoria non sussistevano affatto. La trasformazione sostanziale della destinazione d’uso dell’intero edificio e la creazione di nuovi volumi non autorizzati costituivano violazioni non sanabili.

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Il giudizio del TAR e il ricorso al Consiglio di Stato

A seguito del diniego di sanatoria, i proprietari decisero di impugnare l’ordinanza di demolizione e il rigetto dell’istanza davanti al TAR Campania, sostenendo che molte delle opere contestate fossero temporanee, di cantiere, o comunque parzialmente conformi. Secondo la loro ricostruzione, le modifiche sarebbero state marginali e giustificate dalla necessità di adattare la struttura alle esigenze operative, con la prospettiva di completare l’impianto sportivo in un secondo momento.

Il Tribunale Amministrativo, però, non ha accolto le argomentazioni dei ricorrenti, confermando che le opere realizzate configurano un abuso edilizio sostanziale. Secondo i giudici, l’intervento edilizio si è progressivamente trasformato in un’altra cosa rispetto al progetto approvato, svuotando di fatto il senso e la finalità del permesso di costruire originario. L’impianto sportivo, di fatto, non è mai nato.

Non soddisfatti, i proprietari hanno proposto appello al Consiglio di Stato, sollevando numerose censure di merito e di diritto. Hanno sostenuto che alcune opere, come il piano interrato o il sottotetto, non sarebbero da considerare volumi urbanisticamente rilevanti, e che l’uso temporaneo degli spazi non giustificava una sanzione così drastica come la demolizione.

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Il verdetto del Consiglio di Stato: nessuna tolleranza per gli abusi “mascherati”

Con la sentenza n. 3416 del 2025, il Consiglio di Stato ha confermato in toto quanto già stabilito dal TAR, respingendo l’appello dei ricorrenti. La motivazione è netta: le opere eseguite costituiscono “totale difformità” rispetto al progetto assentito e non possono essere oggetto né di sanatoria né di una diversa interpretazione urbanistica. Il giudice amministrativo ha ribadito un principio giurisprudenziale ormai consolidato: il mutamento di destinazione d’uso fra categorie funzionalmente non omogenee, così come la realizzazione di nuovi volumi in aree sature, ha un impatto urbanistico rilevante e richiede un titolo edilizio adeguato, la cui assenza comporta l’obbligo di demolizione.

Il Collegio ha inoltre chiarito che non è sufficiente sostenere che un’opera è temporanea o “tecnica” per escluderne la rilevanza edilizia. Un vano interrato, un sottotetto abitabile, o una tettoia chiusa possono avere un impatto significativo sul carico urbanistico, anche se realizzati senza finalità abitative immediate. In questi casi, il riempimento del volume con terra, ad esempio, non equivale affatto a una “demolizione” e non cancella l’abusività dell’opera.

La sentenza rappresenta un importante richiamo alla legalità urbanistica e alla funzione pubblica del controllo edilizio, riaffermando che le deroghe non possono essere ottenute ex post per sanare trasformazioni radicali dell’opera autorizzata. L’ordine di demolizione, in questi casi, non è una scelta discrezionale della pubblica amministrazione, ma un atto dovuto.