Una sentenza della Corte d’Appello di Roma ha stabilito l’illegittimità della trasformazione di una finestra in balcone, tutelando la privacy dei vicini e riconoscendo un risarcimento per la violazione della servitù di veduta.
Quando si effettuano lavori di ristrutturazione su un immobile, è fondamentale rispettare i diritti dei vicini e le normative vigenti. Un intervento che modifica lo stato dei luoghi può infatti generare conflitti, specialmente se altera la privacy o l’uso degli spazi comuni.
È quello che è successo nel caso affrontato dalla Corte d’Appello di Roma con la sentenza n. 713/2025, che ha esaminato un contenzioso tra vicini nato dopo alcuni lavori eseguiti su un lastrico solare.
In particolare, la disputa riguardava:
In primo grado, il Tribunale di Cassino (sentenza n. 136/2019) aveva respinto le richieste della parte che si riteneva danneggiata, ritenendo che non fossero state fornite prove sufficienti a dimostrare il pregiudizio subito. Tuttavia, la Corte d’Appello di Roma ha ribaltato in parte la decisione, riconoscendo che alcune modifiche edilizie avevano effettivamente leso i diritti della parte attrice e imponendo il ripristino dello stato dei luoghi, oltre a un risarcimento economico.
Cosa significa questa sentenza per chi effettua lavori in casa? Quali sono i rischi legali di modifiche strutturali che influiscono sulle proprietà confinanti?
Scopriamolo analizzando nel dettaglio il caso e le motivazioni della decisione.
Sommario
La vicenda giudiziaria ha avuto inizio con una causa intentata presso il Tribunale di Cassino, nella quale gli attori contestavano al vicino l’esecuzione di alcuni lavori di ristrutturazione che, a loro dire, avevano violato i loro diritti di proprietà e di privacy.
In particolare, la parte attrice aveva chiesto:
Il Tribunale di Cassino, con la sentenza n. 136/2019, aveva però rigettato le richieste, ritenendo che gli attori non avessero prodotto prove sufficienti a dimostrare le loro pretese. In particolare, il giudice di primo grado aveva evidenziato che nel fascicolo processuale non erano presenti documentazioni fotografiche o perizie tecniche che dimostrassero le modifiche apportate. Inoltre, i testimoni ascoltati non avevano fornito elementi chiari e univoci sulla situazione preesistente dei luoghi.
Per questi motivi, la domanda era stata respinta e gli attori condannati al pagamento delle spese legali. Tuttavia, non soddisfatti della decisione, essi hanno deciso di ricorrere in appello, portando nuove argomentazioni e contestando la valutazione delle prove da parte del giudice di primo grado.
Advertisement - PubblicitàLa Corte d’Appello di Roma, con la sentenza n. 713/2025, ha parzialmente riformato la decisione del Tribunale di Cassino, riconoscendo che alcune modifiche edilizie apportate dall’appellato hanno effettivamente leso i diritti della parte attrice.
Uno degli aspetti più rilevanti della sentenza è il riconoscimento della violazione dell’articolo 905 del Codice Civile, che disciplina le distanze minime per le vedute dirette.
Articolo n° 905.
Distanza per l’apertura di vedute dirette e balconi
Non si possono aprire vedute dirette verso il fondo chiuso o non chiuso e neppure sopra il tetto del vicino, se tra il fondo di questo e la faccia esteriore del muro in cui si aprono le vedute dirette non vi e’ la distanza di un metro e mezzo.
Non si possono parimenti costruire balconi o altri sporti, terrazze, lastrici solari e simili, muniti di parapetto che permetta di affacciarsi sul fondo del vicino, se non vi e’ la distanza di un metro e mezzo tra questo fondo e la linea esteriore di dette opere.
Il divieto cessa allorquando tra i due fondi vicini vi e’ una via pubblica.
Secondo la Corte, la realizzazione di un balcone al posto di una semplice finestra ha creato una servitù di veduta illegittima, poiché consentiva all’appellato di affacciarsi e ispezionare la proprietà confinante, limitando la privacy e il diritto al riserbo degli appellanti.
La giurisprudenza in materia ha sempre considerato che una veduta diretta, che consenta di guardare senza difficoltà all’interno dell’altrui abitazione, può costituire un abuso edilizio e deve rispettare distanze minime, a meno che non vi sia un consenso tra le parti. In questo caso, non solo tale consenso non era presente, ma la modifica era stata eseguita unilateralmente dall’appellato.
La Corte ha quindi ordinato il ripristino dello stato dei luoghi, imponendo la rimozione del balcone e il ripristino della finestra originale.
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Advertisement - PubblicitàUn altro punto trattato dalla sentenza riguarda la riapertura di un vecchio ingresso murato, che secondo gli appellanti costituiva una servitù di passaggio estinta per non uso ventennale. Tuttavia, la Corte ha respinto questa richiesta, ritenendo che non fosse stata fornita prova sufficiente a dimostrare che l’ingresso fosse rimasto chiuso per un periodo ininterrotto superiore a vent’anni.
La testimonianza di alcune persone ascoltate durante il processo ha evidenziato che l’accesso era stato murato negli anni ‘90 e riaperto nel 2005, un intervallo temporale di circa 15 anni, quindi inferiore alla soglia di prescrizione prevista dalla legge per l’estinzione di una servitù per non uso.
In assenza di prove documentali certe che attestassero una chiusura superiore a vent’anni, la Corte ha confermato la legittimità della riapertura dell’ingresso.
Per quanto riguarda la presunta rimozione della grondaia, la Corte ha nuovamente dato ragione all’appellato, affermando che non erano state presentate prove certe a dimostrare che fosse stato lui a rimuovere l’elemento. Gli appellanti sostenevano che la rimozione avesse causato infiltrazioni d’acqua nella loro proprietà, ma non sono state prodotte perizie tecniche o fotografie che certificassero lo stato della grondaia prima e dopo i lavori.
Inoltre, le testimonianze raccolte non erano univoche, rendendo impossibile per la Corte attribuire con certezza la responsabilità della rimozione all’appellato. In mancanza di una prova chiara, la domanda di ripristino è stata quindi respinta.
Un aspetto fondamentale della sentenza è stato infine il riconoscimento del danno subito dagli appellanti a causa della violazione della loro privacy e della perdita di luce naturale. La Corte ha fatto riferimento alla giurisprudenza della Cassazione (sentenza n. 22835/2024), secondo cui la lesione del diritto di proprietà, derivante da una servitù non autorizzata, è automaticamente produttiva di un danno.
Questo principio, noto come danno in re ipsa, stabilisce che, in situazioni di violazione di un diritto reale, il danno è presunto e non richiede una prova specifica. Basandosi su questa impostazione, la Corte ha quantificato il risarcimento in 5.000 euro, considerando sia la perdita di privacy causata dal nuovo balcone, sia la riduzione di luce e aria conseguente alla modifica dell’immobile.
Questa decisione ribadisce l’importanza di rispettare le distanze legali e le normative sulle servitù quando si effettuano lavori edilizi. La sentenza conferma che le modifiche strutturali non possono ledere i diritti altrui, specialmente se riguardano la privacy e la riservatezza delle abitazioni confinanti.