Costruire un edificio ricostruendolo sul sedime di uno esistente può sembrare un intervento semplice, ma nasconde spesso insidie tecniche e giuridiche. La questione si complica ancora di più se l’immobile si trova in un centro storico, dove ogni modifica deve rispettare vincoli urbanistici e architettonici molto rigidi.

È il caso di una controversia arrivata fino al Consiglio di Stato, in cui una residente ha impugnato l’approvazione di un piano attuativo che prevedeva la demolizione e ricostruzione di un vecchio edificio rurale. Il nuovo fabbricato sarebbe sorto in aderenza alla sua proprietà, secondo un progetto approvato tramite SCIA alternativa al permesso di costruire. Secondo la ricorrente, però, l’intervento violava sia le distanze minime sia le norme sul calcolo volumetrico.

Con la sentenza n. 2477 del 25 marzo 2025, il Consiglio di Stato  ha fatto chiarezza su quando e a quali condizioni è legittimo ricostruire in aderenza, anche senza l’accordo tra confinanti, offrendo una lettura importante delle norme urbanistiche nei centri storici.

Ma quando è davvero possibile ricostruire “a ridosso” di un altro edificio? Quali limiti devono essere rispettati? E quali diritti ha chi abita accanto?

Scopriamolo in questo approfondimento.

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La vicenda: demolizione, ricostruzione e… polemica

Tutto ha avuto inizio con l’approvazione da parte della giunta comunale di un piano attuativo di recupero urbanistico che prevedeva la demolizione di un edificio rurale dismesso e la costruzione, sullo stesso sedime, di una nuova abitazione unifamiliare.

L’area oggetto dell’intervento rientrava nella cosiddetta “Zona A – Nuclei di antica formazione”, dove vigono regole urbanistiche particolarmente restrittive, volte alla tutela del patrimonio edilizio esistente. Il nuovo fabbricato sarebbe sorto in aderenza a un edificio confinante, di proprietà di una residente che, accortasi dell’intervento in corso dopo l’affissione del cartello di cantiere, ha deciso di impugnare il piano attuativo, la SCIA alternativa al permesso di costruire e la relativa convenzione urbanistica.

Secondo la ricorrente, il progetto violava diverse disposizioni del piano regolatore comunale: il calcolo della superficie lorda di pavimento avrebbe incluso porzioni – come portici e logge – che la normativa escludeva; le distanze minime non sarebbero state rispettate; e, soprattutto, parte dell’intervento avrebbe interessato aree senza titolo edilizio valido.

La questione si è così trasformata in una vera e propria battaglia legale, prima davanti al TAR e poi al Consiglio di Stato.

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Volumetrie e porticati: cosa conta davvero nella SLP?

Uno dei punti centrali della controversia riguardava il calcolo della superficie lorda di pavimento (SLP), ovvero il parametro edilizio fondamentale per determinare quanta volumetria può essere ricostruita dopo una demolizione. Secondo la ricorrente, il progetto avrebbe gonfiato indebitamente i metri quadrati a disposizione, includendo nel computo volumetrico due portici al piano terra che, a suo dire, dovevano esserne esclusi in base al regolamento urbanistico locale.

Il Consiglio di Stato, però, ha confermato la posizione del Comune: in quella specifica zona del paese, la normativa urbanistica consente il tamponamento di logge e porticati esistenti, cioè la loro chiusura con pareti per trasformarli in spazi interni.

Questo significa che, pur non essendo ancora stati tamponati al momento della richiesta di intervento, quei portici erano astrattamente trasformabili in volume edilizio utile, e dunque legittimamente considerati nella SLP. Il fatto che fossero stati condonati con regolare titolo edilizio oltre trent’anni prima ha ulteriormente rafforzato la validità del calcolo.

In altre parole: se il piano regolatore permette di chiudere un portico preesistente, è del tutto lecito conteggiarne il volume ai fini della nuova costruzione, anche se il tamponamento non è stato materialmente eseguito. Un’interpretazione che privilegia l’efficienza e la semplificazione, soprattutto nei centri storici dove gli edifici sono spesso frutto di stratificazioni edilizie complesse.

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Costruire in aderenza: quando si può (anche senza consenso)

Un altro aspetto fortemente contestato riguardava la costruzione in aderenza al fabbricato confinante. La proprietaria vicina sosteneva che il nuovo edificio avrebbe dovuto rispettare la distanza minima di 3 metri, prevista dalle norme urbanistiche locali, e che tale costruzione avrebbe richiesto un’esplicita convenzione tra confinanti, mai stipulata.

Ma anche su questo punto il Consiglio di Stato ha ritenuto infondate le doglianze.

Secondo i giudici, il progetto prevedeva la costruzione in aderenza, e non semplicemente “a confine”, quindi non si applicava l’obbligo di rispettare le distanze minime né tantomeno la necessità di un consenso scritto tra i proprietari. La decisione si fonda sull’articolo 873 del Codice Civile, che disciplina proprio il caso della costruzione in aderenza, basata sul principio della prevenzione edilizia: chi costruisce per primo sul confine stabilisce le condizioni per il vicino, che può poi costruire in aderenza.

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Nel caso esaminato, l’edificio della vicina era già stato realizzato a ridosso del confine: questo ha legittimato la controparte a realizzare il nuovo immobile in aderenza, senza bisogno di autorizzazioni ulteriori. Inoltre, nei centri storici, le normative nazionali (come il D.M. 1444/1968) ammettono deroghe alle distanze per favorire il recupero del tessuto urbano compatto, a patto che non si violino diritti fondamentali, cosa che – secondo i giudici – non è avvenuta.

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La decisione finale e le sue conseguenze

Alla luce di tutte le valutazioni svolte, il Consiglio di Stato – Sezione Quarta, con la sentenza n. 2477 del 25 marzo 2025, ha ritenuto infondato l’intero impianto accusatorio. Secondo i giudici, il progetto edilizio approvato rispettava pienamente le norme urbanistiche locali, mentre i titoli edilizi preesistenti risultavano legittimi e ormai non più impugnabili, essendo stati rilasciati e condonati oltre trent’anni prima.

La costruzione in aderenza era ammessa, i volumi erano stati calcolati correttamente tenendo conto delle disposizioni speciali, e il trasferimento tra mappali contigui era espressamente autorizzato dalle norme del piano urbanistico comunale, in particolare dall’art. 41 delle NTA, relativo al comparto NP8.

Il ricorso è stato dunque respinto in via definitiva, con condanna della ricorrente al pagamento di 4.000 euro di spese processuali, da suddividersi tra il Comune e i privati coinvolti.

La pronuncia assume una rilevanza che va oltre il caso concreto, chiarendo principi fondamentali in materia di recupero edilizio nei centri storici, interpretazione delle norme urbanistiche, valenza dei titoli edilizi pregressi e legittimità della costruzione in aderenza anche senza consenso formale tra confinanti.

Una sentenza che ribadisce l’importanza di valutare gli interventi edilizi non solo in base alle norme generali, ma anche considerando le deroghe pianificate e approvate dagli strumenti urbanistici comunali.