Nel caso in cui un soggetto privato dovesse acquistare un edificio e successivamente provvedesse a vendere le singole unità a soggetti estranei, tale operazione si configurerebbe come “attività d’impresa”.
Nel caso in cui un soggetto privato dovesse acquistare un edificio – per poi ristrutturarlo e ricavare più appartamenti rispetto a quelli esistenti prima dei lavori – e successivamente provvedesse a vendere le singole unità a soggetti estranei, tale operazione si configurerebbe come “attività d’impresa”.
Risulterebbe dunque legittimo in questi casi per l’Agenzia delle Entrate inviare avvisi di accertamento per il recupero delle imposte IRAP e IVA, che non sono state pagate dal soggetto in quanto soggetto privato.
Di recente è stato spiegato infatti che anche un soggetto privato è tenuto al pagamento delle suddette imposte qualora svolgesse un’attività ritenuta “commerciale” per un considerevole periodo di tempo.
Approfondiamo di seguito.
Sommario
Il punto è stato sancito di recente dalla Cassazione con la sentenza n. 36992 del 16 dicembre 2022.
La vicenda giudiziale ha inizio con la sentenza di primo grado della CTP di Asti, emessa nel 2015.
Una contribuente proponeva ricorso contro l’Agenzia delle Entrate per aver ricevuto un avviso di recupero delle imposte IRPEF, IVA e IRAP, dovute in virtù del fatto che risultava svolgere attività d’impresa.
Il primo ricorso è stato rigettato dalla CT Provinciale, così come anche il secondo dalla CT Regionale, in quanto la contribuente, in riferimento all’anno contestato, risultava svolgere attività commerciale nel settore immobiliare.
Nello specifico, si è potuto dimostrare che la donna aveva operato attivamente nella commercializzazione di immobili, al di fuori dall’ambito familiare, per un periodo di tempo continuativo. Tra l’altro, da tali operazioni di vendita aveva guadagnato, nel tempo di un anno, risorse economiche paragonabili a quelle che percepisce un’impresa operante nel settore immobiliare.
La contribuente però non si è arresa e ha tentato anche l’ultimo ricorso presso la Cassazione. Anche questo tuttavia è stato respinto, con la sentenza del 16 dicembre 2022.
Advertisement - PubblicitàIn particolare, la donna contestava in primo luogo il fatto che il Codice Civile stabilisce che un’attività, per essere considerata commerciale, debba essere svolta con professionalità abituale.
Sul punto la Corte fa presente però che la nozione civilistica di “esercizio di imprese commerciali” è differente dalla nozione tributaristica.
Difatti, il DPR n. 633 del 26 ottobre 1972, all’art. 4, comma 1, stabilisce che:
“Per esercizio di imprese si intende l’esercizio per professione abituale, ancorché non esclusiva, delle attività commerciali o agricole di cui agli articoli 2135 e 2195 del codice civile, anche se non organizzate in forma di impresa, nonché l’esercizio di attività, organizzate in forma di impresa, dirette alla prestazione di servizi che non rientrano nell’articolo 2195 del codice civile.”
Nello specifico, la nozione civilistica intende per esercizio di attività commerciali solo le attività caratterizzate da una gestione organizzata in forma d’impresa.
La nozione tributaristica invece ricomprende in questo senso anche le attività che non sono svolte in forma organizzata, ma che sono caratterizzate da professionalità abituale, anche non esclusiva.
La Corte specifica tuttavia che per “esercizio di professione abituale”, si intende semplicemente un’attività che non viene svolta in maniera occasionale.
In sostanza, sono ricomprese qui tutte quelle attività che, anche se non sono svolte in forma organizzata, vengono però esercitate abitualmente, ovvero con caratteri di stabilità e regolarità.
Le caratteristiche di stabilità e regolarità si sviluppano quando un’attività si protrae per un considerevole periodo di tempo, anche nel caso in cui questo non sia rigorosamente continuativo.
Si fa presente, tra l’altro, che anche nel caso in cui un soggetto privato dovesse compiere un unico affare – che però richiede lo svolgimento di una pluralità di operazioni, e comprende un ammontare di denaro non trascurabile – tale soggetto sarebbe qualificato come imprenditore.
Difatti, già con la sentenza n. 4407/1995, la Cassazione si era occupata di un caso di costruzione e successiva vendita di immobili da parte di privati. Anche allora si ritenne che una singola attività di costruzione, se comporta un rilevante impiego di risorse, si protrae nel tempo e gode di un’organizzazione di fattori di produzione, è da configurarsi come impresa, anche se viene esercitata da un soggetto privato.
Advertisement - PubblicitàIn merito al significato di attività commerciale, più di recente, anche l’Agenzia delle Entrate ha espresso un parere affine nella risposta ad interpello n. 426 del 24 ottobre 2019.
Qui veniva affrontato un caso simile a quello trattato nella sentenza in oggetto, ed era stato chiarito che:
“la qualifica di imprenditore può essere attribuita anche a chi semplicemente utilizzi e coordini un proprio capitale per fini produttivi. L’esercizio dell’impresa, inoltre, può esaurirsi anche con un singolo affare in considerazione della sua rilevanza economica e delle operazioni che il suo svolgimento comporta. Più precisamente, un singolo affare può costituire esercizio di impresa allorquando implichi il compimento di una serie coordinata di atti economici, sia pure attraverso un’unica operazione economica, come avviene nel caso di costruzione di edifici da destinare all’abitazione […]”.
Tra l’altro, sempre il Fisco aveva sottolineato qui un altro fattore particolarmente rilevante, ovvero la finalità delle operazioni che interessavano il complesso immobiliare. L’istante difatti aveva provveduto alla costruzione e alla successiva rivendita di alcune unità immobiliari a terzi soggetti.
Questo significa che l’intera operazione sul complesso immobiliare era stata svolta non per uso familiare, ma con finalità di lucro.
Il caso trattato nella sentenza della Cassazione porta dunque allo stesso risultato. La contribuente ha infatti provveduto a ristrutturare l’edificio, per poi ricavare un numero di unità immobiliari superiore a quello originario, e alla fine vendere singolarmente le unità a terzi soggetti, estranei all’ambito familiare.
In quanto al fatto che l’attività seguisse delle modalità operative organizzate, lo si può dimostrare dal fatto che la contribuente è ricorsa a contributi esterni per la ristrutturazione, la commercializzazione e la vendita degli immobili.
A questo proposito, non è rilevante il fatto che l’attività sia condotta o meno in forma di autonoma e stabile organizzazione. È sufficiente dimostrare che l’attività venga svolta abitualmente e per un lungo periodo di tempo.
L’esistenza di un’autonoma organizzazione risulta rilevante invece per sapere se si deve applicare o meno l’IRAP alle operazioni commerciali. Difatti, l’imposta viene applicata solo se l’attività viene svolta, specificatamente, per mano di un’organizzazione imprenditoriale stabile e dimostrabile.
Se questa risulta assente, l’IRAP non sarà applicata. Ma è sempre necessario dimostrare, nell’attività, l’assenza di una stabile organizzazione.
Nel caso in sentenza, la contribuente avrebbe dovuto godere quindi dell’esenzione dall’IRAP. Questa tuttavia non sarà applicata perché la donna non ha provveduto a dimostrare l’assenza di una stabile organizzazione nell’attività commerciale di cui era titolare.
Advertisement - PubblicitàL’ultimo motivo presente nel ricorso alla Cassazione riguardava invece l’avviso di accertamento per il recupero dell’IVA non pagata nelle operazioni di vendita immobiliari.
La contribuente riteneva infatti che l’IVA non dovesse essere applicata, in quanto le operazioni era già state assoggettate al pagamento dell’imposta di registro. Anche qui però, il ragionamento non è esatto.
Il DPR n. 633/1972, all’art. 1, prevede infatti che:
“L’imposta sul valore aggiunto si applica sulle cessioni di beni e le prestazioni di servizi effettuate nel territorio dello Stato nell’esercizio di imprese o nell’esercizio di arti e professioni e sulle importazioni da chiunque effettuate.”
In quanto al momento in cui dev’essere corrisposta l’imposta, l’art. 6, dispone invece che:
“Le cessioni di beni si considerano effettuate nel momento della stipulazione se riguardano beni immobili e nel momento della consegna o spedizione se riguardano beni mobili.”
In virtù di ciò, la Cassazione ritiene che – avendo la contribuente esercitato, per il periodo d’imposta d’interesse, un’attività volta alla ristrutturazione, commercializzazione e vendita di beni immobili – risulti corretta l’applicazione dell’IVA alle somme contestate.
In fatto che le operazioni siano state assoggettate al pagamento dell’imposta di registro, infatti, non esclude che possano essere assoggettate ad IVA. Si precisa però che, se l’imposta di registro già versata dovesse risultare non dovuta, la contribuente avrà diritto a richiedere il rimborso per tale somma.
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