L’abusivismo edilizio è una problematica che affligge molte aree del territorio italiano, in particolare quelle soggette a vincoli paesaggistici, sismici e idrogeologici.
Un recente esempio significativo è la sentenza della Corte di Cassazione, che riguarda un immobile costruito abusivamente in una zona soggetta a vincoli paesaggistici e idrogeologici a Ischia. Questo caso mette in evidenza non solo l’importanza del rispetto delle normative, ma anche le conseguenze legali e pratiche per chi decide di aggirarle.
Quali sono state le decisioni della Corte e quali sono le conseguenze per chi viola le norme urbanistiche? Vediamolo nel dettaglio.
Sommario
Il caso di abusivismo edilizio che ha portato alla sentenza n. 35006/2024 della Corte di Cassazione risale agli inizi degli anni ’90, in un contesto che vede coinvolta una zona particolarmente delicata dell’isola di Ischia, sottoposta a vincoli paesaggistici e idrogeologici.
Nel marzo del 1992, le autorità locali avevano accertato la costruzione abusiva di un edificio di circa 63 metri quadrati per piano, disposto su due livelli. Il piano terra era quasi completamente interrato e realizzato con muri di pietra tufacea e solaio in cemento armato, mentre il primo piano, pur ancora incompleto, era stato edificato con due mura parallele in cemento, anch’esso con solaio in cemento armato.
A seguito di tale scoperta, l’immobile è stato posto sotto sequestro, impedendo ufficialmente la prosecuzione dei lavori.
Nonostante ciò, nel 1994, dopo la rimozione del sequestro, le autorità hanno riscontrato che i lavori erano ripresi in maniera abusiva e completati senza alcuna autorizzazione. Le opere di tamponamento del primo piano erano state terminate e l’edificio era stato reso abitabile, nonostante il vincolo imposto.
Di fronte a questa situazione, il proprietario dell’immobile ha tentato di ottenere un condono edilizio in due diverse occasioni: la prima nel 1994, in virtù della legge n. 724 del 1994, e la seconda nel 2003, a seguito della legge n. 326 del 2003. In entrambe le richieste, però, le autorità hanno negato la sanatoria, poiché i lavori non erano stati completati entro il termine del 31 dicembre 1993 previsto dalla legge per ottenere il condono straordinario.
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Non solo, ma le opere realizzate dopo il sequestro risultavano non essere di semplice manutenzione o ristrutturazione, bensì interventi significativi che avevano aumentato la volumetria complessiva dell’immobile.
Il ricorso alla Corte di Cassazione da parte del proprietario, dunque, si basava sul tentativo di far valere la tesi che i lavori fossero stati bloccati dal provvedimento di sequestro e che l’opera principale fosse già stata sostanzialmente ultimata prima di tale data. Tuttavia, le autorità avevano contestato questa versione, dimostrando che l’immobile non era stato completato in tempo utile e che le modifiche strutturali successivamente apportate rappresentavano un ampliamento sostanziale dell’abuso edilizio, in violazione delle norme paesaggistiche e urbanistiche.
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Advertisement - PubblicitàLa Corte di Cassazione ha rigettato il ricorso del proprietario dell’immobile, confermando quanto già stabilito dalle autorità giudiziarie precedenti. Le motivazioni del rigetto si basano su una chiara applicazione delle normative vigenti in materia di condono edilizio.
Secondo la Corte, per poter beneficiare del condono straordinario previsto dalla legge n. 724 del 1994, i lavori edilizi dovevano essere completati entro il 31 dicembre 1993. In questo caso, però, l’edificio non poteva essere considerato ultimato entro quella data, poiché mancavano elementi essenziali per il completamento della struttura, come la tamponatura delle mura perimetrali.
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Solo successivamente al dissequestro dell’immobile, avvenuto nel 1994, furono portate a termine le opere che resero l’immobile abitabile.
La Corte ha inoltre chiarito che il concetto di “ultimazione al rustico“, che è un requisito fondamentale per ottenere il condono, include non solo la realizzazione delle strutture portanti e della copertura, ma anche il tamponamento esterno, indispensabile per rendere il volume dell’edificio chiaramente individuabile.
In assenza di queste caratteristiche, l’immobile non può essere considerato ultimato. Questo principio è stato ribadito in diverse sentenze precedenti e confermato nuovamente dalla Corte di Cassazione in questa decisione.
La sentenza ha inoltre sottolineato che i provvedimenti di sequestro, pur impedendo temporaneamente la prosecuzione dei lavori, non possono essere considerati come una giustificazione per completare opere non esistenti alla data del sequestro. Infatti, il condono può essere concesso solo per le strutture già realizzate e non per quelle che sono state costruite successivamente.
In questo caso, i lavori eseguiti dopo il dissequestro rappresentavano un ampliamento abusivo che andava oltre quanto già edificato, compromettendo la possibilità di sanatoria.
Advertisement - PubblicitàUn aspetto cruciale del caso riguarda i vincoli idrogeologici e paesaggistici presenti nell’area in cui l’edificio era stato costruito. La zona in questione, infatti, rientra in una categoria di rischio elevato (R3) secondo il Piano Stralcio per l’Assetto Idrogeologico (PSAI) approvato nel 2015.
La presenza di tali vincoli ha reso ancora più stringenti le condizioni per ottenere il condono edilizio, specialmente in aree caratterizzate da un’elevata vulnerabilità ambientale. La difesa ha sostenuto che l’immobile ricadeva in una zona esterna al perimetro dell’area soggetta ai vincoli più restrittivi (R4, rischio molto elevato), e che dunque non era necessaria l’autorizzazione delle autorità competenti per procedere con i lavori.
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La Corte, però, ha respinto questa argomentazione, chiarendo che i vincoli idrogeologici devono essere presi in considerazione anche nelle aree a rischio elevato (R3) e che, in ogni caso, i vincoli ostativi al condono delle opere abusivamente realizzate devono preesistere all’edificazione.
Inoltre, la Corte ha ribadito che l’autorità competente per la tutela del vincolo idrogeologico è la stessa che rilascia i permessi edilizi, e nel caso specifico, l’intervento non risultava in alcun modo compatibile con le norme ambientali e paesaggistiche in vigore.
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