Il TAR Lazio ha respinto un ricorso contro il diniego di condono edilizio per un locale commerciale abusivo, ribadendo l’insanabilità delle opere in area vincolata paesaggisticamente.
Nel complesso mondo dell’edilizia italiana, il confine tra ciò che può essere sanato e ciò che resta irrimediabilmente illegittimo è spesso segnato da norme complesse e sentenze chiarificatrici. Uno dei casi più spinosi riguarda le opere abusive realizzate su terreni sottoposti a vincolo paesaggistico: possono essere condonate oppure no? E se il vincolo è stato apposto dopo l’abuso?
A fornire una risposta netta a queste domande è intervenuta una recente pronuncia del TAR Lazio (sentenza n. 7433/2025), che ha respinto il ricorso contro il diniego di un’istanza di condono edilizio.
Al centro del contendere, la realizzazione di un locale commerciale, oggetto di una domanda di sanatoria risalente al 2004, ma collocato in un’area tutelata dal Piano Territoriale Paesistico Regionale.
Perché l’opera è stata ritenuta insanabile nonostante la domanda sia stata presentata in tempo utile? Cosa prevede la legge nei casi di vincolo paesaggistico? E quali conseguenze pratiche derivano da questa decisione per cittadini, professionisti e Pubbliche Amministrazioni?
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Sommario
La vicenda ruota attorno alla richiesta di sanatoria presentata nel 2004 per un’opera già ultimata nel 2002: un locale commerciale di circa 200 mq, con una cubatura complessiva di 640 metri cubi. L’intervento, realizzato senza titolo edilizio, era stato oggetto di domanda di condono ai sensi del cosiddetto “terzo condono” previsto dal decreto legge n. 269/2003, convertito con modificazioni nella legge n. 326/2003.
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L’Amministrazione capitolina ha rigettato l’istanza, basandosi su un elemento chiave: l’area oggetto dell’intervento risultava vincolata sotto il profilo paesaggistico già prima della realizzazione dell’abuso. Il Piano Territoriale Paesistico “Veio-Cesano” – approvato definitivamente nel 1998 – impone infatti precisi limiti alla edificabilità in quella zona, escludendo interventi di nuova costruzione che generano nuova volumetria.
Secondo quanto dichiarato nella stessa domanda di condono, le opere erano state ultimate il 30 novembre 2002, dunque in un periodo successivo all’introduzione del vincolo. Di conseguenza, secondo il TAR, non poteva trovare applicazione alcuna deroga: l’opera ricadeva tra quelle espressamente insuscettibili di sanatoria ai sensi dell’art. 32, comma 27, della legge 326/2003, che vieta il condono per costruzioni abusive su aree vincolate quando il vincolo è anteriore alla realizzazione delle opere.
Questa circostanza ha rappresentato un punto decisivo nel giudizio: il vincolo paesaggistico non era stato introdotto dopo la costruzione, come sostenuto dalle ricorrenti, ma era già pienamente efficace.
Di conseguenza, il Comune non solo ha avuto pieno titolo per rigettare la domanda, ma – secondo la giurisprudenza richiamata – non era nemmeno tenuto a effettuare ulteriori valutazioni di merito sulla compatibilità urbanistica o paesaggistica dell’intervento.
Advertisement - PubblicitàLe ricorrenti, nel tentativo di ottenere l’annullamento del provvedimento di rigetto, hanno presentato un ricorso fondato su diversi profili di illegittimità dell’azione amministrativa. Il cuore della loro difesa si basava su due argomentazioni principali: la presunta mancata istruttoria da parte del Comune e l’erronea interpretazione della natura e della tempistica del vincolo paesaggistico.
In primo luogo, le ricorrenti hanno lamentato la violazione dell’art. 10-bis della legge n. 241/1990, norma che obbliga la Pubblica Amministrazione a valutare attentamente le osservazioni presentate dai cittadini in risposta al preavviso di rigetto. A loro dire, il Comune si sarebbe limitato a un diniego generico, senza considerare né rispondere in modo puntuale ai rilievi sollevati.
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In secondo luogo, è stato contestato il presupposto stesso del rigetto: secondo la difesa, il vincolo paesaggistico sarebbe stato introdotto dopo la presentazione della domanda di condono. Inoltre, si è fatto riferimento agli articoli 51 e 52 del Piano Territoriale Paesistico Veio-Cesano, sostenendo che questi prevedrebbero alcune deroghe per specifiche categorie di edificazioni, tra cui attività agricole o impianti sportivi estensivi.
Infine, le ricorrenti hanno sostenuto che il provvedimento impugnato fosse viziato da difetto assoluto di motivazione, illogicità e disparità di trattamento, richiamando anche i principi costituzionali di buon andamento ed efficacia della Pubblica Amministrazione.
Tuttavia, come vedremo nei prossimi paragrafi, nessuna di queste censure ha convinto il TAR.
Advertisement - PubblicitàLa decisione del TAR si fonda su un principio chiaro e costantemente ribadito dalla giurisprudenza amministrativa: non tutte le opere abusive possono essere sanate, anche quando la domanda di condono è stata presentata nei termini di legge. La discriminante principale è data dalla presenza di vincoli – ambientali, paesaggistici, idrogeologici – e dalla tipologia dell’abuso.
In questo caso, l’abuso consisteva nella realizzazione ex novo di un manufatto commerciale, con generazione di nuova superficie e nuovo volume. L’intervento, pertanto, rientra tra quelli che l’art. 32, comma 27, della legge n. 326/2003 definisce espressamente non sanabili, quando realizzati su immobili soggetti a vincoli paesaggistici già vigenti al momento della costruzione.
Tale previsione normativa ha natura rigidamente preclusiva, e non lascia spazio a valutazioni discrezionali da parte dell’Amministrazione o del giudice.
A rafforzare questo limite è intervenuta anche la legge regionale del Lazio n. 12/2004, la quale ha confermato – in termini persino più restrittivi – l’insanabilità di opere abusive realizzate in difformità dal titolo edilizio su immobili vincolati, anche nel caso in cui la costruzione sia precedente al vincolo, se non conformi agli strumenti urbanistici.
La ratio di queste norme è tutelare in modo rafforzato il paesaggio e l’ambiente, ritenuti beni di interesse primario. Ne consegue che i cosiddetti “abusi maggiori” (come la costruzione di nuovi edifici) non possono mai essere oggetto di condono, anche in presenza di strumenti urbanistici successivamente più permissivi. La disciplina del condono, infatti, ha carattere straordinario e non può sovrapporsi alle tutele imposte dalle normative vincolistiche.
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Advertisement - PubblicitàUno degli aspetti centrali della decisione del TAR riguarda la temporalità del vincolo paesaggistico. Le ricorrenti avevano sostenuto che il vincolo fosse stato introdotto dopo la presentazione della domanda di sanatoria, ipotizzando così la possibilità di accedere al condono.
Tuttavia, i giudici hanno verificato che il Piano Territoriale Paesistico Veio-Cesano – lo strumento che ha imposto il vincolo – era già in vigore ben prima della realizzazione dell’opera.
Il locale commerciale oggetto di condono risultava ultimato a fine novembre 2002, mentre il vincolo era stato adottato nel 1988 e approvato definitivamente nel 1998. Di conseguenza, il vincolo era pienamente efficace e opponibile al momento dell’abuso edilizio.
Secondo una consolidata giurisprudenza, confermata anche in questa sentenza, gli abusi realizzati su aree vincolate prima della loro edificazione non possono essere sanati, salvo rientrino in alcune limitate eccezioni (manutenzioni straordinarie, restauri, risanamenti conservativi). In altre parole, ciò che conta non è la data della domanda di condono, ma la data effettiva della realizzazione dell’opera rispetto all’entrata in vigore del vincolo.
Questo principio è stato ribadito con forza dal TAR Lazio anche attraverso il richiamo a decine di precedenti giurisprudenziali conformi, a partire dalla storica sentenza n. 2705/2015 fino alle più recenti decisioni del 2024.
Nessuna possibilità, dunque, per interventi come quello oggetto di causa: trattandosi di una nuova costruzione in zona vincolata, la legge esclude ogni margine di regolarizzazione, anche se l’opera risulterebbe teoricamente compatibile con gli strumenti urbanistici vigenti oggi.
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Advertisement - PubblicitàUno dei punti su cui le ricorrenti hanno insistito con maggiore forza riguarda la presunta violazione dell’art. 10-bis della legge n. 241/1990, una norma cardine del procedimento amministrativo che tutela il diritto del cittadino a partecipare attivamente alla formazione dei provvedimenti che lo riguardano.
Secondo questa disposizione, l’amministrazione, prima di adottare un provvedimento negativo, è tenuta a comunicare i motivi ostativi all’accoglimento dell’istanza e a valutare le eventuali osservazioni presentate dall’interessato.
Le ricorrenti hanno sostenuto che Roma Capitale avrebbe ignorato le loro controdeduzioni e che il rigetto sarebbe stato emesso senza una reale valutazione delle osservazioni formulate.
Tuttavia, il TAR ha smentito questa ricostruzione. I giudici hanno infatti rilevato che l’Amministrazione aveva effettivamente preso in esame le osservazioni, come indicato nella Relazione di Valutazione redatta dal competente ufficio tecnico. In quel documento si evidenziava che non era stata presentata alcuna documentazione utile a ribaltare l’orientamento negativo iniziale, né elementi nuovi che potessero giustificare una diversa istruttoria.
Anche se si fosse ipotizzato un difetto di motivazione o una valutazione frettolosa delle osservazioni – sottolinea il TAR – ciò non avrebbe comunque inciso sulla legittimità del provvedimento, trattandosi di un atto vincolato. Infatti, quando la legge stabilisce in modo rigido l’insanabilità di un’opera (come nel caso di abusi maggiori su aree vincolate), l’Amministrazione non ha margine di discrezionalità e l’istruttoria formale perde rilevanza.
In questi casi, trova applicazione l’art. 21-octies, comma 2, della stessa legge 241/1990, che conserva la validità del provvedimento anche in presenza di vizi procedurali, se il contenuto dell’atto non avrebbe potuto essere diverso.