Sarebbero sufficienti questi dati per far comprendere quanto il sistema degli appalti pubblici sia strategico per l’intera economia del nostro Paese, coinvolgendo non soltanto la Pubblica amministrazione con le sue numerose stazioni appaltanti, ma anche le imprese con tutto il loro indotto e, dunque, centinaia di migliaia di lavoratori.
Eppure, curiosamente, nel dibattito politico di questi ultimi anni, il ruolo degli appalti pubblici non solo non è stato mai adeguatamente valorizzato, ma anzi relegato più che altro nell’ambito di una lotta alla corruzione generalista e generalizzata e, dunque, demagogica e per ciò stesso inefficace.
Ed è proprio questo uno dei principali problemi che non consente al sistema del public procurement di decollare in Italia quanto negli altri Paesi europei, collocandosi il nostro Paese soltanto al 24° posto (insieme alla Grecia) per spesa pubblica in materia di appalti.
E’, infatti, davvero l’attuale modalità di lotta alla corruzione il reale problema che attanaglia il complesso rapporto fra imprese, pubblica amministrazione e cittadini? O piuttosto la corruzione viene spesso brandita più che altro come “specchietto per le allodole” al fine di sviare l’attenzione sui reali vulnus tutt’ora esistenti nelle stazioni appaltanti italiane?
La risposta a tali interrogativi non può che essere affermativa: la corruzione pur grave e radicata nel nostro Paese, ha in realtà un’incidenza relativa sulle grandi e piccole criticità del public procurment. Alcuni dati oggettivi raccolti da una recentissima ricerca dell’Università “Tor Vergata” di Roma svolta in collaborazione con la Columbia University e la London school of Economic, nonché la stessa esperienza quotidiana delle varie stazioni appaltanti, mostra infatti come in realtà gli sprechi nel settore degli appalti pari a circa 30 miliardi di euro all’anno (circa il 2% del PIL), siano causati solo per il 13% dalla corruzione, mentre per l’87% da incapacità e incompetenza degli uffici tecnici e degli amministratori.
Il dato è impressionante, non soltanto per la mole di denaro pubblico letteralmente “buttato”, ma soprattutto perché mette in luce l’inconsistenza e fallacia delle attuali politiche legislative in materia di appalti pubblici, volte per lo più a contrastare repressivamente i fenomeni corruttivi in sede di gara, che non a combattere inefficienze e imperizie dell’Amministrazione in sede di esecuzione dei lavori, cioè in sede di realizzazione dell’opera.
La lotta agli sprechi e alla corruzione non può essere demagogica, altrimenti rischia, come di fatto è avvenuto, di concretizzarsi per lo più in azioni legislative fuori bersaglio e foriere spesso solo di un aumento eccessivo della burocrazia, di un’esasperata procedimentalizzazione dei processi, con conseguente aggravio per le imprese e le pubbliche amministrazioni che si trovano sempre più a dover lavorare in un proliferare di norme farraginose e controlli esterni numerosi, spesso fini a se stessi e privi di benefici pratici. E, infatti, le varianti in corso d’opera non accennano a diminuire, le “riserve” iscritte dagli appaltatori sono sempre le stesse con richieste di risarcimento in corso lavori esorbitanti, il contenzioso resta elevatissimo e spesso azionato “a prescindere”, addirittura prima che l’affidatario metta piede in cantiere.
Da qui, anche un ulteriore disallineamento fra gli effetti desiderati dal legislatore (lotta alla corruzione e agli sprechi) e concreta realtà. Prima di un recentissimo piano straordinario di deflazionamento del contenzioso in sede transattiva, avviato dal management di ANAS in vista della sua incorporazione nel gruppo FS, l’ammontare delle cause facenti capo a tale Ente (la prima stazione appaltante italiana e la quarta d’Europa) era pari complessivamente a circa 10 miliardi di euro. Una mole impressionante di debito gravante sulle casse dello Stato, derivante tuttavia solo per circa il 10% (per petitum e numero) da cause di natura amministrativa per vizi legati alla fase di aggiudicazione, e da più del 90%, invece, da cause di natura squisitamente civile, attivato cioè dalle ditte esecutrici per ottenere il riconoscimento di ingenti “risarcimenti” conseguenti a “riserve” iscritte durante i lavori, a volte pari a più del doppio del valore originario d’appalto.
E’ evidente, dunque, anche solo da questi dati, quanto il costo sociale e gli sprechi di denaro pubblico non derivino sostanzialmente da criticità legate alla scelta del contraente in fase di gara, ma alla fase di esecuzione dei lavoried è lì, conseguentemente, che la lotta alla corruzione e agli sprechi si sarebbe dovuta concentrare predisponendo idonei strumenti legislativi volti e prevenirla più che a combatterla, anticipandola fin dalla fase di redazione del progetto.
In questa ottica, va salutata certamente con favore la novità introdotta dal nuovo codice degli appalti di “mettere a gara” il più dettagliato progetto esecutivo e non già il progetto definitivo, ma sarebbe stato necessario anche, parallelamente, mettere le pubbliche amministrazioni nelle concrete condizioni di poter redigere e poi validare con elevati standard professionali un simile progetto, così preciso da dover limitare notevolmente il rischio di varianti e più in generale di anomalo andamento dell’appalto.
Così come sarebbe stato opportuno, al fine di combattere la corruzione e ridurre gli sprechi, offrire obbligatoriamente alle valutazioni delle stazioni appaltanti, già in sede di gara, il “curriculum” delle imprese partecipanti alla gara, perché non basta che esse abbiano un determinato fatturato o che siano sulla carta esenti da rischi di infiltrazione mafiosa; è anche e soprattutto necessario ai fini di garantire l’esecuzione dell’opera entro i tempi e costi originari, valutare se nella sua “carriera” l’aggiudicatario non sia stato propenso all’attivazione sterile del contenzioso, alla consegna finale dell’opera in notevole ritardo, che non sia uso ad iscrivere riserve pretestuose e così via. E invece, il legislatore ha deciso da ultimo di eliminare del tutto, anche per le grandi opere, l’obbligatorietà di presentazione in sede di gara del c.d. rating di impresa, attualmente solo facoltativo e di natura esclusivamente premiale.
E ancora, sarebbe stato necessario fin da subito prevedere un capitolato speciale tipo, o prevedere come coadiutore del RUP e del DL, anche negli appalti di lavori, il c.d. esecutore del contratto, limitando contestualmente il numero di cantieri (attualmente numerosissimi) nei quali i funzionari delle stazioni appaltanti devono esercitare il proprio ruolo di “alter ego” delle imprese.
Così come sarebbe stato sufficiente non eliminare il c.d. premio di accelerazione, che ove correttamente attuato, avrebbe invece potuto offrire un reale incentivo per le imprese ad eseguire i lavori nei termini contrattuali; incentivo, ben inteso, da “relazionare” con l’applicazione delle penali, peraltro, addirittura totalmente eliminate nella prima versione del codice e solo recentemente reintrodotte dall’ultimo decreto correttivo in modo del tutto identico alla versione precedente.
Così come, da ultimo, al fine di attuare un’urgente digitalizzazione delle procedure, sarebbe stato necessario prevedere immediatamente, o quanto meno entro termini temporali “misurabili”, l’introduzione obbligatoria almeno del capitolato “digitale”, e non entro il lontanissimo 2025, così come stabilisce il nuovo decreto attuativo del MIT, pubblicato in piena campagna elettorale solo lo scorso 18 gennaio. Ma del resto, sia detto per inciso, dei 19 decreti attuativi previsti dal nuovo codice appalti, a circa due anni dalla sua entrata in vigore, ne risultano attualmente promulgati soltanto tre.
Una riforma, insomma, che presenta non solo molteplici profili di inattuabilità, ma che si prefigge anche obiettivi che non è poi in grado di perseguire in concreto: intende contrastare gli sprechi con una lotta generalizzata alla corruzione, quando in realtà – come dimostrato – la principale causa degli stessi sprechi è la mancanza di formazione del personale tecnico delle stazioni appaltanti; e, ancora, si prefigge di contrastare fenomeni corruttivi in fase di gara, ma non dove più essa più pericolosamente si annida, cioè in fase esecutiva, sposando più la logica di scegliere il migliore aggiudicatario (sulla carta), che non il miglior esecutore (nel cantiere).
Occorre, quindi, con urgenza ri-orientare le politiche legislative alla risoluzione dei veri problemi del comparto, attuare strategie di lotta alla corruzione e agli sprechi non demagogiche, ma realistiche e finalizzate al bersaglio. Occorre dotare la pubblica amministrazione, sul modello tedesco, di strumenti di prevenzione efficaci, dotando il personale tecnico delle stazioni appaltanti anzitutto di un’adeguata formazione attraverso l’istituzione di una Scuola ad hoc, propedeutica all’inserimento nei ranghi amministrativi di funzionari altamente specializzati.Oggi, con le specificità tecniche contemporanee, non è possibile che il personale delle stazioni appaltanti apprenda di fatto la propria professione solo “per affiancamento”, perpetrando dunque gli errori del passato.
Occorre, insomma, mettere mano con urgenza a questa riforma “elettorale” del sistema appalti, andando ad incidere oramai sull’unico strumento attuativo ancora in grado ancora di “rimodulare” e correggere gli errori presenti in sede di normazione primaria, ossia scrivere bene il regolamento attuativo del nuovo codice. E questo sarà compito esclusivo del Parlamento e del nuovo Governo, che devono con fermezza e orgoglio riappropriarsi della propria potestà di legiferare senza “sub-appaltarne” la competenza ad alcuna, pur autorevole, Autorità amministrativa.
Non vi è altro modo che questo per ridurre gli sprechi e prevenire la corruzione dove essa più pericolosamente si annida, prendendo le mosse da logiche demagogiche e generaliste, così da realizzare opere pubbliche in tempi e costi certi.
*Avvocato e Dottore di ricerca in diritto amministrativo
www.linkedin.com/in/andreanapoleone
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