La sentenza del TAR Emilia-Romagna chiarisce che, in presenza di norme mutate, un abuso edilizio formale può non giustificare la demolizione, privilegiando sicurezza e interesse pubblico attuale.
Negli ultimi anni, il recupero dei sottotetti ai fini abitativi è diventato uno degli strumenti più utilizzati per valorizzare il patrimonio edilizio esistente, soprattutto nei contesti urbani consolidati. Questa tendenza, sostenuta da normative regionali sempre più flessibili, si scontra spesso con un’altra esigenza altrettanto fondamentale: quella di rispettare le regole urbanistiche in vigore al momento della realizzazione delle opere.
Ma cosa succede se un’opera, pur ritenuta inizialmente illegittima per via di una modesta modifica strutturale, diventa legittima alla luce delle nuove regole? È giusto ordinare comunque la demolizione o prevale l’interesse a mantenere l’intervento, specie se migliora la sicurezza dell’edificio?
A chiarirlo è una recente sentenza del Tribunale Amministrativo dell’Emilia-Romagna, che ha fatto luce su un tema cruciale: il bilanciamento tra legalità e attualità normativa. Una decisione che apre nuovi scenari nel rapporto tra cittadini, Comuni e giustizia amministrativa.
Ma davvero basta cambiare una norma per rendere legittimo un abuso edilizio? E dove finisce il confine tra interesse pubblico e tutela della proprietà privata?
Sommario
Tutto ha inizio in un condominio situato nel Comune di Fidenza, dove una proprietaria decide di recuperare ai fini abitativi il sottotetto sovrastante il proprio appartamento. Per farlo, presenta regolarmente una SCIA edilizia (Segnalazione Certificata di Inizio Attività), seguita da una variante. I lavori vengono realizzati, ma un gruppo di condomini contesta l’intervento, sostenendo che questo abbia comportato un aumento non autorizzato delle altezze di colmo e di gronda del tetto — modifiche, a loro dire, non consentite dal Regolamento Urbanistico Edilizio comunale allora in vigore.
Secondo i ricorrenti, l’intervento avrebbe alterato i volumi e lo skyline del fabbricato, e per questo doveva essere sanzionato come abuso edilizio. La vicenda si complica quando l’Amministrazione comunale, dopo un sopralluogo, conclude inizialmente che i lavori sono sostanzialmente conformi ai titoli edilizi.
Tuttavia, questa valutazione viene annullata dal TAR in una precedente sentenza, che riconosce la violazione dell’art. 80 del vecchio RUE.
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Il TAR impone così al Comune una nuova valutazione, stavolta in base all’art. 21-nonies della legge 241/1990, che disciplina l’autotutela amministrativa, chiedendo di stabilire se esista un interesse pubblico concreto e attuale a demolire l’intervento già realizzato. A quel punto, il Comune avvia il procedimento ma conclude che non sussistono le condizioni per procedere in autotutela, proprio perché l’intervento, pur irregolare all’epoca, sarebbe oggi pienamente ammissibile secondo la normativa urbanistica vigente.
Advertisement - PubblicitàAl centro della controversia si colloca l’art. 21-nonies della legge 241/1990, una norma che consente alla Pubblica Amministrazione di annullare d’ufficio un provvedimento illegittimo, ma solo a due condizioni: deve esistere un interesse pubblico concreto e attuale, e l’annullamento non deve arrecare un pregiudizio sproporzionato ai soggetti coinvolti.
Non basta quindi la semplice “violazione della legalità” per giustificare un intervento tardivo: occorre valutare se, nel contesto specifico, esistano motivi validi per rimuovere ciò che è stato fatto.
Nel caso esaminato, anche se il TAR aveva già stabilito l’illegittimità di alcune altezze raggiunte dal sottotetto — giudicando le SCIA parzialmente irregolari — il Comune ha ritenuto che non vi fosse un interesse pubblico sufficiente per procedere alla demolizione.
Il motivo?
L’intervento in questione non solo era già stato completato, ma rispondeva anche a finalità strutturali importanti, come l’adeguamento antisismico dell’edificio mediante l’aggiunta di una cordolatura sommitale, e risultava oggi conforme al nuovo Regolamento Urbanistico approvato nel frattempo.
La sentenza sottolinea come l’interesse pubblico, in materia edilizia, non possa essere ridotto alla mera restaurazione formale della legalità, ma debba tenere conto delle evoluzioni normative e degli effetti concreti sull’interesse collettivo e privato. Questo approccio evita che l’autotutela diventi uno strumento punitivo scollegato dalla realtà, specie in ambiti come la rigenerazione urbana, dove le regole cambiano rapidamente.
Advertisement - PubblicitàLa decisione del Comune di non intervenire in autotutela si fonda su una valutazione ponderata e aggiornata del contesto normativo e urbanistico. L’Amministrazione ha infatti rilevato che, sebbene al momento della realizzazione dei lavori il Regolamento Urbanistico vietasse aumenti di altezza, la normativa è successivamente cambiata, allineandosi alle disposizioni regionali che favoriscono il recupero abitativo dei sottotetti, anche con modifiche minime a gronda e colmo.
In particolare, la variante del Regolamento approvata nel 2017 consente modifiche dell’altezza fino a 50 cm per la gronda e fino a 1 metro per il colmo, proprio per incentivare interventi di recupero abitativo, efficientamento energetico e miglioramento strutturale.
L’intervento contestato rientra perfettamente in questi nuovi limiti. Inoltre, l’aumento di altezza era dovuto all’inserimento di una cordolatura sommitale — un elemento strutturale pensato per migliorare la sicurezza antisismica dell’edificio, non per guadagnare volumetria abitabile.
Per il Comune, imporre la demolizione avrebbe significato non solo arrecare un grave danno economico e materiale al proprietario, ma anche compromettere la stabilità del fabbricato, senza alcun beneficio reale per la collettività. Di conseguenza, l’interesse pubblico attuale non giustificava una misura così drastica e sproporzionata.
Advertisement - PubblicitàIl Tribunale Amministrativo, con la sentenza n° 108/2025, ha confermato la legittimità dell’operato del Comune, riconoscendo la correttezza del bilanciamento tra interesse pubblico e privato. Secondo i giudici, il provvedimento comunale non è viziato da arbitrarietà, ma risulta coerente con quanto imposto da una precedente sentenza (n. 82/2021), che obbligava l’Amministrazione a valutare — non automaticamente, ma in modo motivato — se vi fosse un interesse pubblico ulteriore a giustificare un intervento in autotutela.
Il TAR ha sottolineato che la violazione della legalità urbanistica, da sola, non basta per giustificare l’annullamento postumo di un titolo edilizio se nel frattempo le norme sono cambiate e l’opera, anche se originariamente illegittima, è oggi compatibile con la disciplina vigente. Inoltre, la funzione antisismica e conservativa della cordolatura sommitale rafforza l’interesse pubblico alla sua permanenza, trattandosi di un elemento che migliora la sicurezza dell’intero edificio.
In sintesi, il TAR ha adottato un approccio realistico e “contemporaneo” del diritto urbanistico, che non separa la legalità dalla sua funzione concreta, soprattutto in un ambito in continua trasformazione come quello della rigenerazione edilizia. Il ricorso, quindi, è stato respinto e i ricorrenti condannati al pagamento delle spese processuali.