Il TAR Campania ha confermato la demolizione di opere difformi rispetto a una sanatoria edilizia, chiarendo i limiti dell’accertamento di conformità e la legittimità del silenzio amministrativo.
In Italia, il tema dell’abusivismo edilizio continua a rappresentare una delle questioni più complesse e controverse del diritto urbanistico. Accade spesso che, dopo aver ottenuto un permesso di costruire in sanatoria per opere già realizzate, i proprietari si sentano legittimati ad apportare ulteriori modifiche, magari considerate minime o motivate da esigenze personali. Ma è davvero così?
Una recente sentenza del TAR Campania chiarisce in modo netto i limiti della sanatoria edilizia e ribadisce che ogni intervento successivo deve essere conforme non solo alla normativa vigente, ma anche al titolo rilasciato.
Il caso esaminato dai giudici riguarda un’abitazione oggetto di lavori ritenuti abusivi nonostante una precedente regolarizzazione. L’ordinanza di demolizione emessa dal Comune è stata impugnata dalla proprietaria, che ha sostenuto la legittimità delle opere per ragioni tecniche, paesaggistiche e anche personali.
Ma il TAR ha respinto il ricorso, affermando un principio tanto chiaro quanto severo: non basta aver ottenuto una sanatoria, se poi si violano nuovamente le regole edilizie.
Quali sono i limiti da rispettare dopo una sanatoria? Quando un Comune può legittimamente ordinare la demolizione? E quali margini di difesa ha il cittadino?
Vediamolo insieme.
Sommario
Tutto ha inizio nel 2009, quando la proprietaria di un immobile ottiene un permesso di costruire in sanatoria, regolarizzando opere già eseguite ma non ancora ultimate nelle finiture. Da quel momento, la situazione sembrava essersi sistemata. Tuttavia, oltre dieci anni dopo, nel 2021, il Comune riceve un esposto in cui si segnalano nuove presunte irregolarità edilizie.
Seguono un sopralluogo tecnico e la comunicazione della notizia di reato: secondo gli accertamenti, alcune opere risultavano difformi rispetto a quanto autorizzato nel titolo in sanatoria. Per altre, invece, mancava del tutto un titolo abilitativo.
L’amministrazione comunale, a quel punto, emette un’ordinanza di demolizione nei confronti della proprietaria, che decide di impugnarla davanti al TAR.
Nel ricorso, la cittadina contesta la legittimità del provvedimento, sostenendo che le opere fossero di modesta entità, alcune necessarie per motivi di salute, altre perfettamente integrabili nel contesto urbano. In parallelo, presenta anche un’istanza di accertamento di conformità urbanistica ex art. 36 del Testo Unico dell’Edilizia, per sanare le opere oggetto della contestazione.
Il TAR con la sentenza n. 1453/2025, però, respinge il ricorso. Secondo i giudici, le opere realizzate erano in evidente difformità dal titolo edilizio in sanatoria. E proprio quel titolo, frutto di una precedente valutazione degli interessi pubblici e privati, costituiva il limite invalicabile entro cui si sarebbe dovuti rimanere.
In sostanza, l’ordine di demolizione non aveva bisogno di ulteriori motivazioni o istruttorie: era una conseguenza automatica dell’abuso accertato.
L’unica eccezione riconosciuta riguarda la demolizione volontaria, da parte della ricorrente, di una baracca realizzata senza titolo: in quel caso, il TAR ha dichiarato cessata la materia del contendere.
Advertisement - PubblicitàNel dettaglio, le opere edilizie finite sotto la lente del TAR erano numerose e di varia natura. Alcune erano state realizzate in ampliamento o modifica di quanto già sanato, altre del tutto nuove. La proprietaria cercava di giustificarle appellandosi a ragioni tecniche, estetiche o funzionali, ma per i giudici nessuna di queste motivazioni poteva superare il principio cardine della conformità al titolo edilizio.
Uno degli interventi principali riguardava un torrino scala, ovvero un corpo emergente sul tetto che proseguiva il vano scale: secondo il Comune, non era stato demolito come prescritto nel permesso in sanatoria, e costituiva una sopraelevazione non autorizzata. Il TAR ha confermato questa tesi, richiamando una precedente sentenza che qualificava opere simili come veri aumenti volumetrici, soggetti a permesso.
C’era poi un muretto di recinzione costruito sul lastrico solare, anch’esso difforme rispetto al progetto autorizzato. Anche in questo caso, la giurisprudenza citata dal TAR ha ribadito che la semplice difformità da un progetto approvato è sufficiente per giustificare un ordine di demolizione, anche in presenza di interventi apparentemente minori.
Un altro elemento contestato era la pavimentazione in cemento del giardino, che la proprietaria sosteneva di aver realizzato per motivi di sicurezza, dovuti a una condizione di invalidità personale. Ma per i giudici, si trattava comunque di una trasformazione permanente del suolo che modificava la destinazione d’uso dell’area e, in quanto tale, avrebbe richiesto un nuovo permesso di costruire.
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Perfino le modifiche più lievi – come la sostituzione degli infissi in alluminio al posto di quelli in legno o la tinteggiatura della facciata con colori diversi – sono state ricondotte al principio di valutazione unitaria dell’intervento edilizio.
Il TAR ha infatti ribadito che non si può scomporre l’abuso in singole parti per minimizzarne l’impatto: quello che conta è l’effetto complessivo sul contesto edilizio e paesaggistico.
Advertisement - PubblicitàUno degli strumenti più invocati dai privati in situazioni di contestazione edilizia è l’accertamento di conformità, previsto dall’art. 36 del Testo Unico dell’Edilizia. Si tratta, in sostanza, di una “sanatoria postuma”: il proprietario può chiedere di regolarizzare un’opera già realizzata, ma solo a condizione che questa risulti conforme sia alla normativa urbanistica e edilizia vigente al momento della realizzazione, sia a quella in vigore al momento della richiesta.
Nel caso affrontato dal TAR Campania, la proprietaria dell’immobile aveva presentato questa istanza dopo aver ricevuto l’ordinanza di demolizione. In particolare, sosteneva che le opere contestate potessero essere sanate, anche in virtù del fatto che alcune erano già state rimosse, come nel caso della baracca. Aveva inoltre allegato una relazione tecnica e una comunicazione di inizio lavori asseverata (CILA) per dimostrare la buona fede e l’intenzione di regolarizzare la situazione.
Tuttavia, il Comune non ha mai risposto all’istanza. Ed è proprio questo silenzio che la ricorrente ha voluto impugnare davanti al giudice, ritenendolo illegittimo.
Ma il TAR ha dato torto alla proprietaria: secondo i giudici, non esisteva alcuna possibilità di accoglimento dell’istanza, poiché le opere non rispettavano i requisiti minimi richiesti per l’accertamento di conformità. Di conseguenza, il silenzio serbato dall’Amministrazione è stato considerato pienamente legittimo.
La motivazione del TAR è chiara: un abuso non può diventare legittimo solo perché lo si chiede, né tantomeno perché lo si “mitiga” nel tempo. Se le opere risultano difformi rispetto a un titolo esistente, e non compatibili con le norme urbanistiche vigenti, non vi è spazio per alcuna regolarizzazione. E questo vale anche quando la richiesta è accompagnata da documenti tecnici o buone intenzioni.