Una casa vicino al mare, acquistata anni fa in buona fede, e un’ordinanza di demolizione che arriva all’improvviso. È quanto accaduto in Puglia, nella zona di San Pietro in Bevagna, dove il Comune ha ordinato la demolizione di un intero immobile per presunti abusi edilizi.

La proprietaria ha provato a difendersi sostenendo che l’edificio esistesse già prima del 1967, ma per i giudici non è bastato. Secondo la sentenza n. 337/2025 del TAR Puglia, mancano prove concrete: né l’atto di compravendita, né le visure catastali, né le perizie tecniche hanno convinto il tribunale.

In discussione anche alcune opere realizzate nel tempo, come una tettoia trasformata in cucina e un pergolato in terrazza. Opere che, secondo la proprietaria, rientravano nell’edilizia libera, ma che per il TAR si configurano come veri e propri aumenti di volume non autorizzati.

Cosa ci insegna questo caso? Quando è davvero possibile costruire senza permessi? E come si dimostra che un immobile è “vecchio abbastanza” da non dover essere demolito?

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Quando serve davvero il permesso a costruire? la linea di confine fissata dal 1967

Il nodo del contendere è tutto qui: la data di costruzione dell’immobile principale. In Italia, la legge n. 765 del 1967 – conosciuta come “legge ponte” – ha rappresentato uno spartiacque nel governo del territorio. Prima di quella data, nelle zone fuori dal centro abitato, non era necessario alcun titolo edilizio per costruire.

Dopo il 1967, invece, ogni intervento edilizio è soggetto a regole precise e a obblighi autorizzativi. Ma come si dimostra che un edificio è nato prima di quella soglia storica?

Nel caso esaminato dal TAR Puglia, la proprietaria ha cercato di farlo esibendo un atto di compravendita in cui si dichiarava che l’edificio fosse preesistente al 1967, oltre a una perizia tecnica e ad alcune visure catastali. Tuttavia, secondo i giudici, queste prove non hanno retto.

Le motivazioni? L’atto notarile contiene una dichiarazione priva di riscontri oggettivi, la visura catastale non riportava la data certa d’iscrizione e la perizia si basava su dati deboli, tra cui fotografie datate 1968 o successivamente, che non sono servite a provare con certezza che l’edificio fosse già presente nel 1967.

Secondo la giurisprudenza consolidata, infatti, l’onere della prova grava interamente sul proprietario e deve essere basato su elementi documentali “certi, univoci e verificabili”. Non sono ritenute valide le sole dichiarazioni del venditore o attestazioni contenute nei contratti di compravendita.

Serve di più: rilievi fotografici, planimetrie datate, autorizzazioni, documentazione storica. E anche se è passato molto tempo dalla costruzione, questo non crea automaticamente un diritto alla conservazione dell’immobile.

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Quando edilizia libera non significa “liberi tutti”

Una parte fondamentale della difesa della ricorrente si è basata sull’idea che alcune delle opere contestate — come una tettoia in metallo chiusa da vetrate e un pergolato in terrazza — rientrassero nell’edilizia libera. In sostanza, interventi talmente minimi da non richiedere né permessi edilizi né autorizzazioni paesaggistiche.

Ma il TAR ha chiarito un punto essenziale: non basta la forma leggera o la funzione accessoria per escludere l’obbligo del titolo abilitativo, specie quando si crea un nuovo vano chiuso e abitabile.

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Nel caso in esame, la tettoia era di fatto una nuova cucina/lavanderia ricavata in un ex cortile, chiusa da muri e vetrate, con tanto di impianti. Questo tipo di trasformazione non è un semplice riparo temporaneo, ma un’aggiunta volumetrica permanente che aumenta la superficie utile dell’immobile.

Lo stesso discorso vale per il cosiddetto pergolato: dotato di copertura fissa in canne di bambù e pilastri strutturali in legno, è stato considerato alla stregua di una tettoia vera e propria, quindi soggetta a permesso di costruire.

Il TAR si è rifatto anche a una giurisprudenza recentissima del Consiglio di Stato, secondo la quale la trasformazione di uno spazio aperto in uno chiuso e utilizzabile stabilmente — anche con materiali leggeri — è equiparabile a una nuova costruzione. E, come tale, richiede l’autorizzazione paesaggistica e il permesso edilizio, specie se realizzata in zone vincolate come quella oggetto della sentenza.

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Il tempo non sana l’abuso e l’amministrazione non deve motivare troppo

Uno degli argomenti difensivi più frequenti in casi simili è quello basato sul decorso del tempo: se un’opera è lì da anni, magari da decenni, e il Comune non ha mai detto nulla, perché dovrebbe essere demolita oggi? Ma la risposta dei giudici è netta: l’illegalità edilizia non si prescrive. Anche se l’immobile è lì da tanto, anche se l’area è ormai urbanizzata, l’ordine di demolizione rimane un atto dovuto, e il tempo trascorso non crea un affidamento legittimo nella permanenza dell’abuso.

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La ricorrente, infatti, aveva contestato anche l’insufficienza della motivazione dell’ordinanza comunale, sostenendo che non fosse stata adeguatamente giustificata, soprattutto in relazione al lungo tempo trascorso dalla realizzazione dell’immobile.

Ma il TAR ha chiarito che l’ordinanza di demolizione è un atto vincolato, cioè non discrezionale: se manca il titolo edilizio, il Comune è obbligato ad agire, e la motivazione necessaria è minima. Basta la descrizione delle opere e la constatazione della loro abusività.

In questo caso, inoltre, l’Amministrazione aveva preso in esame le osservazioni della proprietaria, le aveva elencate nel provvedimento e aveva spiegato perché non le riteneva sufficienti. Per il TAR, tanto basta per considerare rispettati i requisiti minimi di motivazione richiesti dalla legge. In sintesi: non serve che il Comune spieghi perché vuole ripristinare la legalità, basta che riscontri l’abuso.