Una sentenza del TAR Lazio chiarisce le conseguenze degli abusi edilizi, respingendo un ricorso per demolizione e accogliendo parzialmente una contestazione per carenze nella perimetrazione dell’area acquisita.
Il Tribunale Amministrativo Regionale del Lazio si è recentemente espresso su un complesso caso di abusi edilizi, che ha visto coinvolti un’impresa immobiliare e il Comune di Roma. Al centro della vicenda, due provvedimenti contestati dalla società: un ordine di demolizione per la realizzazione di opere senza autorizzazione e, successivamente, un provvedimento di acquisizione al patrimonio pubblico del terreno e delle costruzioni abusive, a seguito della mancata demolizione.
La sentenza n. 23222/2024 ha respinto il ricorso contro l’ordinanza di demolizione, sottolineando l’assenza di prove concrete a sostegno della difesa della società, ma ha accolto parzialmente il secondo ricorso, evidenziando la necessità di maggiore chiarezza nella perimetrazione delle aree acquisite dal Comune.
Come si è sviluppata la vicenda? Cosa stabilisce la normativa in casi simili?
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Sommario
La vicenda ha avuto origine dalla realizzazione di una serie di interventi edilizi su un immobile situato a Roma, eseguiti senza il rilascio di un titolo abilitativo valido. Tra le opere contestate dall’amministrazione figuravano strutture in muratura, ampliamenti di volumetria e manufatti di varia natura, tra cui una struttura in legno con tetto spiovente, un fabbricato destinato a sala con cucina e bagno, e diversi manufatti in lamiera e muratura.
Tali opere, secondo il Comune, configuravano interventi di nuova edificazione abusiva, realizzati in assenza dei permessi previsti dalla normativa edilizia vigente, in particolare ai sensi dell’art. 31 del DPR 380/2001 (Testo Unico dell’Edilizia), che disciplina gli interventi eseguiti in difformità dalle autorizzazioni e ne prevede la demolizione obbligatoria.
L’amministrazione comunale, accertata l’irregolarità, ha emesso un’ordinanza ingiungendo la demolizione delle opere entro un termine di 90 giorni, specificando che, in caso di mancata ottemperanza, l’area occupata dai manufatti e una porzione ulteriore di terreno pari a 1.600 mq sarebbero stati acquisiti automaticamente al patrimonio pubblico.
La società immobiliare ha impugnato l’ordinanza, sostenendo che le opere non rientrassero tra gli abusi edilizi gravi. La difesa ha affermato che alcuni manufatti fossero preesistenti e risalissero ad epoca antecedente al 1967, quando non era obbligatorio il permesso di costruire. Inoltre, ha contestato la qualificazione delle opere come nuove edificazioni, argomentando che si trattasse piuttosto di interventi di ristrutturazione edilizia, ai sensi dell’art. 33 dello stesso DPR, che prevede sanzioni meno severe e non la demolizione.
Nel corso del giudizio, la società non ha però prodotto documentazione catastale o probatoria sufficiente a dimostrare la legittimità degli interventi, basandosi prevalentemente su affermazioni non supportate da elementi oggettivi, come evidenziato dal TAR nella sentenza.
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Advertisement - PubblicitàLa seconda contestazione ha avuto origine dalla mancata esecuzione dell’ordinanza di demolizione precedentemente notificata alla società. Trascorsi i 90 giorni concessi per la rimozione volontaria delle opere abusive, l’amministrazione comunale ha disposto l’acquisizione automatica al patrimonio pubblico sia delle opere realizzate che di una porzione di terreno circostante di 1.600 mq, in applicazione dell’art. 31 del DPR 380/2001.
L’acquisizione è stata formalizzata con un provvedimento dirigenziale che prevedeva la trascrizione del passaggio di proprietà nei registri immobiliari e l’immissione del Comune nel possesso dei manufatti e delle relative aree. La società ha quindi presentato un secondo ricorso, contestando la legittimità di tale procedura per diversi motivi.
In particolare, l’azienda ha lamentato:
Questa seconda contestazione si è quindi focalizzata non tanto sull’esistenza dell’abuso edilizio, quanto piuttosto sulla correttezza formale e procedurale del provvedimento sanzionatorio emesso dal Comune.
Advertisement - PubblicitàIl Tribunale Amministrativo Regionale del Lazio, esaminati entrambi i ricorsi presentati dalla società, ha emesso una decisione articolata, respingendo integralmente il primo ricorso e accogliendo parzialmente il secondo.
Sul primo ricorso:
Il TAR ha rigettato le contestazioni della società in merito all’ordinanza di demolizione e alla sanzione pecuniaria. La motivazione principale del rigetto è stata la mancanza di prove documentali sufficienti per dimostrare la legittimità delle opere. La società, infatti, non ha prodotto documentazione catastale che dimostrasse la preesistenza dei manufatti prima del 1967, né ha fornito elementi concreti a supporto dell’ipotesi che si trattasse di interventi di ristrutturazione edilizia e non di nuove costruzioni abusive.
Sul secondo ricorso:
In merito all’acquisizione al patrimonio comunale, il TAR ha invece accolto parzialmente le contestazioni della società. Pur confermando che l’acquisizione fosse legittima in base al mancato rispetto dell’ordinanza di demolizione, ha evidenziato come l’amministrazione non avesse adeguatamente perimetrato l’area di 1.600 mq acquisita e non avesse chiarito le modalità di calcolo adottate.
Per questo motivo, il tribunale ha ordinato al Comune di emanare un nuovo provvedimento che specifichi in modo chiaro:
Conclusioni giuridiche:
Pur confermando l’acquisizione per effetto della mancata demolizione, il TAR ha imposto al Comune di correggere gli errori procedurali e di notificare alla società un nuovo atto conforme ai principi di trasparenza e motivazione.
Infine, la società è stata condannata al pagamento delle spese processuali, stabilite in 1.500 euro, in quanto prevalente soccombente nella causa.